Renzo Ildebrando Bocchi

Renzo Ildebrando Bocchi
La pietra è stata posta l'11 gennaio 2020 in via Bixio 64 a Parma.

Renzo Ildebrando Bocchi, nel corso della sua pur breve vita, maturò nel corso degli anni una solida scelta antifascista. Fu però proprio quella scelta – alla quale era pervenuto progressivamente, attraverso un percorso di impegno insieme intellettuale, sociale, religioso e politico – a condurlo verso una fine precoce, nel campo di concentramento tedesco di Flossenburg. Bocchi nacque a Parma, in una casa in via Bixio, nell’Oltretorrente, il primo settembre 1913. La sua famiglia era composta da artigiani cattolici, il padre Ricciotti e la madre Ada Mainardi, e dalla sorella Luciana. Il giovane Renzo crebbe immerso nell’atmosfera e nella vita fascista, che fino ad un certo punto dovette apparirgli tutto sommato serena, ordinata, tranquilla, senza suscitare in lui grandi perplessità. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza frequentando l’oratorio dei Padri Stimmatini e soprattutto il Circolo Giovanile cattolico «Domenico Maria Villa», dove sviluppò presto una passione per la discussione dei problemi politici e sociali. Il circolo Villa era stato un punto di riferimento fondamentale per l’antifascismo popolare già dai primi anni Venti, e in particolare in occasione delle Barricate del 1922; al suo interno avevano infatti trovato rifugio personaggi come Ulisse Corazza, giovane consigliere del Partito popolare cattolico che cadde proprio durante gli scontri. Se Bocchi, dunque, faceva parte a tutti gli effetti della cosiddetta «generazione del littorio» – che aveva respirato fin dalla giovanissima età la quotidianità, gli slogan, la propaganda fascisti – ad un certo punto del suo percorso di crescita l’incontro con l’ambiente dei circoli popolari e l’influsso dell’educazione ricevuta in famiglia contribuirono a far sì che egli adottasse uno spirito più critico nei confronti del regime. In particolare secondo don Giuseppe Cavalli, che ebbe modo di conoscerlo, le cause furono «particolari contingenze e fattori determinanti», tra cui «l’influsso gagliardo e fecondo dell’educazione cristiana, ricevuta sotto il tetto materno, nutrita più di esempi non ostentati che di parole e sentenze». Probabilmente dunque, una volta raggiunta un’età più adulta, nel suo intimo Bocchi cominciò a maturare quella che, se non era ancora una chiara coscienza antifascista, era certamente una sempre più forte propensione al rifiuto della violenza, dell’oppressione, della discriminazione.

Il suo percorso scolastico lo vide concludere le scuole elementari e l’Avviamento professionale. Avrebbe voluto - scrive ancora Don Cavalli - frequentare il Liceo e iscriversi alla facoltà di Lettere dell’Università cattolica di Milano; finì per iscriversi a Legge, ma la necessità di mantenersi lo indusse, anzi, lo costrinse, ad abbandonare gli studi universitari e a trovare un lavoro che potesse garantirgli la sopravvivenza quotidiana, con guadagni immediati. Già attorno ai vent’anni, infatti, cominciò a lavorare durante il giorno come commesso viaggiatore per conto di una casa di taglio e di moda. Ogni istante del suo tempo libero, tuttavia, era dedicato alle sue vere passioni: la poesia e la scrittura più in generale, poiché Bocchi fu anche corrispondente per diversi giornali – un’attività della quale si trova traccia nell’archivio don Giuseppe Cavalli, conservato presso l’Istituto storico della Resistenza. Al suo interno infatti si trova tuttora un ingente quantitativo di lettere e richieste di collaborazione a direttori di quotidiani e giornali letterari, nel corso dei decenni Trenta e Quaranta (l’Agenzia giornalistica italiana di Ruggero Zangrandi, il Telegrafo di Livorno, per il quale fu corrispondente da Parma; e ancora il Corriere Emiliano - allora nome ufficiale della «Gazzetta di Parma» - la Gazzetta di Venezia, il Mattino di Napoli e non solo). Non di rado, tuttavia, a Bocchi capitò di ricevere rifiuti. Ciò non gli impedì di coltivare anche amicizie sincere e profonde, come quella con Carlo Andreoni, parmigiano direttore di diverse testate. Un legame, quest’ultimo, testimoniato da lettere lunghe, intense e fortemente ironiche. Il 27 settembre Andreoni scriveva a Bocchi: «tu te ne sei partito, o vate, e qui fioriscono i poeti come i funghi. Ti fanno una concorrenza da non dirsi. Però io tengo più dardi nella mia faretra e ne ho scagliato uno proprio in questi giorni […] ne scaglierò un altro a giorni contro vari autori (cinque), i quali, assieme, hanno fatto un ampio volume di prose e poesie e tra di essi figura un esimio Renzo Bocchi con tre sedicenti novelle. Ti garantisco io che gli farò capire bene quale differenza ci sia tra il chiamarsi Renzo soltanto e Renzo I. (che vuol dire Ildebrando) Bocchi». Ancora Bocchi, in una successiva missiva dell’8 gennaio 1942, mentre si trovava per il servizio militare in Africa si confidava a cuore aperto con l’amico Carlo: «Ti confesso che sono un po’ scosso, ho visto cose che mi hanno profondamente turbato. Un uomo si può abituare a sopportare il suo proprio dolore, ma non mai quello degli altri». La vita del giovane Bocchi, nell’adolescenza e soprattutto nella prima età adulta, non fu insomma semplice e spensierata. Alle difficoltà lavorative si aggiunse la frustrazione di non poter più frequentare l’università per motivi economici. A questa delusione, tuttavia, Bocchi reagì avventurandosi in un vero e proprio percorso di studio da autodidatta. La sera, tornato dal lavoro, leggeva libri, prendeva appunti, recensiva opere. È ancora una volta don Cavalli a raccontare di quel periodo: «Di [quelle] laboriose ed insonni fatiche ci è rimasta una prova eloquente, sicura, nei quaderni (e sono parecchi) di riassunti, commenti e annotazioni che egli faceva su ciò che andava studiando». Era dunque grande produttore di critiche, testi e versi, nel buio della sua stanza, nottetempo. Dal punto di vista della produzione lirica e della personalità umana l’ex direttore della «Gazzetta di Parma» Baldassarre Molossi nel «Dizionario dei Parmigiani» lo descrive così: «poeta di squisita sensibilità, di seria preparazione, di temperamento originale ed acuto, di limpida vena e di schietta ispirazione cattolica». Questa sua attività letterario-poetica, che così profondamente lo definiva, come artista ma prima ancora come essere umano, finì per intrecciarsi indissolubilmente con la scelta di schierarsi con il fronte antifascista. È sempre don Cavalli a sottolineare questo punto: «In Renzo Ildebrando Bocchi - scrive - uomo e poeta non solo s’integrano reciprocamente, ma costituiscono un’anticipazione del martire e tracciano un quadro stupendo di tutte quelle “istanze” che furono alla base della sua lotta e che rappresentano una sintesi luminosa dei valori morali cui s’ispirò la Resistenza italiana ed Europea in genere, e quella “cattolica” in specie».

Alla maturazione del Bocchi coscientemente antifascista concorsero dunque da un lato sicuramente l’educazione e la formazione cattoliche; dall’altro, probabilmente, una naturale propensione al rigetto della violenza e della prevaricazione sui più deboli, sugli umili, sui giusti; ma anche l’incontro con veri e propri modelli, anch’essi facenti attivamente parte dei vertici del mondo cattolico, come l’onorevole Giuseppe Micheli e con «compagni di viaggio», di lavoro e di passione come il poeta parmigiano Renzo Pezzani. La bella corrispondenza con quest’ultimo è conservata sempre dall’Istituto storico della Resistenza. Tutti questi incontri valsero - scrive nuovamente il sacerdote - «a infondere nell’animo di Renzo, pur costretto a vivere nella “clausura” dell’esperienza fascista, un sentimento di reazione prima irriflessa, quasi istintiva, ma poi a trasformare a poco a poco quel sentimento in un rifiuto pieno, irrepetibile».

È necessario però sottolineare come, prima di pervenire alla scelta che lo avrebbe condotto in ultima istanza alla morte nel campo di Flossenburg, Bocchi abbia partecipato a tutte le fasi della vita nell’Italia monarchica e fascista. Nel lungo periodo tra il 1933 e il 1941, infatti, il giovane Renzo svolse il servizio militare di leva. Lo fece a partire dal 1934 nel primo Reggimento granatieri di Sardegna a Roma, lo stesso Reggimento con il quale venne poi inviato nella Saar, per il plebiscito del 13 gennaio ‘35, previsto dal Trattato di Versailles. Di seguito fece ritorno a Roma; qui, alla fine del 1935 – quando il regime stava iniziando la campagna di invasione dell’Etiopia – concluse la sua esperienza da militare. Successivamente partecipò alla Guerra di Spagna, «inviato» come «volontario» dal regime – le virgolette sono le stesse utilizzate da don Cavalli nel descrivere quella che con era stata, con ogni probabilità, una scelta obbligata – a combattere a fianco dell’esercito franchista. Infine fu mandato in Africa settentrionale, sul fronte libico, dove sperimentò sofferenze e privazioni, fisiche e morali, e rimase ferito sul campo. Sull’esperienza libica avrebbe scritto una raccolta di poesie, «Dune Rosse». Tuttavia Bocchi, essendo in ristrettezze economiche, fu costretto a rimandarne la pubblicazione, che alla fine non avvenne mai. «Dune Rosse» va aggiunta a diverse altre opere rimaste inedite, scritte non solo come poeta ma anche come prosatore, lirico e giornalista; mentre gli unici due lavori che Bocchi riuscì a pubblicare prima della guerra furono i volumi di versi «La Fiamma del cuore» (del 1938) e il «Pane del perdono» (uscito nel 1940).

Fu al ritorno dall’Africa che Bocchi cominciò ad avvicinarsi, in maniera sempre più manifesta, all’ambiente antifascista. A riferire di questa fase della vita del poeta è sempre don Giuseppe Cavalli, che da instancabile produttore di memoria, prima, durante, ma soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale fu uno dei pochi a raccogliere informazioni, scritti e pensieri del e sul giovane amico. Pur di età e provenienza differenti (don Cavalli era nato alla fine dell’Ottocento e aveva intrapreso presto il percorso sacerdotale) i due erano accomunati da un approccio «intellettuale» alla fede, vissuta profondamente e convintamente ma non in modo dogmatico e da una simile visione del mondo: lo stesso Bocchi, nella dedica fatta a Cavalli sul suo libro «Il pane del perdono», scriveva: «Per la fiamma dell’amicizia e per l’impeto dei comuni ideali». Non vi è dunque da stupirsi se è dal racconto del sacerdote che veniamo a conoscenza di un momento di svolta non solo nella vita di Renzo Ildebrando, ma anche per il mondo antifascista parmense. Don Cavalli racconta di un’esperienza che i due amici vissero insieme, verso la fine del settembre 1943. Si erano dati appuntamento a Varano Melegari, da dove presero la corriera per Bardi. Lì erano attesi da alcuni amici venuti da Parma, per studiare «un piano d’azione comune contro gli oppressori della patria». Tra gli altri vi erano l’avvocato Ottolenghi, l’ingegner Giacomo Ferrari, Dante Gorreri. Nel corso della riunione, che durò a lungo e vide la presenza di figure anche di differenti fedi politiche, ma unite da solida amicizia, stima, e dal medesimo desiderio di ritrovarsi riuniti in un paese pacificato e democratico, furono affrontati problemi organizzativi, logistici, militari, e ancora legati alla questione dei finanziamenti, delle azioni cospirative, della stampa e della propaganda clandestine. Cominciava insomma a prendere forma il primo nucleo antifascista che, con il passare dei mesi, si sarebbe dato un’organizzazione più organica. Per quanto concerne il mondo cattolico, l’8 settembre del 1943 si costituì a Parma un gruppo che provvide a dare una prima strutturazione al gruppo dei cattolici Parma, e parallelamente un movimento partigiano che si muoveva sempre secondo i principi dell’etica cristiana. Di questo gruppo facevano parte, tra gli altri, Mario Bocchi, segretario dell’onorevole Giuseppe Micheli, che oltre ad essere il promotore di una delle prime riunioni organizzative assunse anche la direzione generale del movimento; don Cavalli, come responsabile dell’Ufficio stampa e propaganda;

Giovanni Vignali detto “Bellini”; e proprio Renzo Bocchi, nome di battaglia “Ruffini”. Insieme ad altri faceva parte della Commissione finanziaria, che doveva provvedere alla raccolta di fondi per l’organizzazione del movimento democristiano e delle formazioni partigiane. A questa mansione se ne aggiunsero presto altre: in primo luogo il poeta prese presto il posto dell’avvocato Calzolari, che all’incontro costitutivo del Comitato di Liberazione Nazionale nello studio di Micheli, il 17 ottobre 1943, era stato designato come supplente di Mario Bocchi, ma era poi stato arrestato e tradotto nelle carceri di San Francesco. Il partigiano “Ruffini”, tuttavia, ricoprì anche ruoli che travalicavano l’ambito locale e provinciale: fu Capo del Servizio informazioni per l’Emilia-Romagna alle dipendenze del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, Capo dell’«Office of strategic service» presso il consolato USA a Lugano, in Svizzera; e ancora «collegatore militare» per Milano, Piacenza, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara. Tutti ruoli di grande responsabilità, che lo portavano a viaggiare moltissimo, e ai quali lui era più che mai dedito.

Tuttavia fu proprio una delle missioni che svolgeva con così tanto zelo, affidatagli dal CLNAI, a costargli l’arresto, la deportazione in un campo di sterminio e infine la vita. Il 13 maggio 1944 partì insieme alla staffetta Bruna Tizzoni; avrebbe dovuto incontrarsi in Svizzera con “Ruggero”, capo del Servizio Informazioni Alleato per l’Italia e finanziatore del movimento partigiano. Bocchi riuscì a portare a termine la missione, e per la foga di tornare a casa - racconta sempre don Cavalli – riuscì a prendere il posto di un’altra persona su un treno che l’avrebbe riportato a Parma quarantotto ore prima del previsto. Varcata la frontiera elvetica, però, venne fermato e arrestato dalla polizia nazifascista. Con sé aveva i soldi dei partigiani, di cui riuscì a liberarsi, e bigliettini di carta con informazioni compromettenti che, secondo il racconto, lui masticò e trangugiò. Venne portato in carcere prima a Como, poi a San Vittore a Milano. Amici e partigiani si adoperarono per liberarlo in tutti i modi, ma prima che quei tentativi potessero risolversi Bocchi fu caricato su un treno diretto verso il Brennero. Dopo una breve sosta a Bolzano, fu trasferito nel campo di Flossenburg, nella Selva Nera, dove trascorse le ultime settimane della sua vita. Qui venne confinato insieme ad altre figure importanti della Resistenza cattolica. Tra queste spiccano Teresio Olivelli, “Cursor” (autore della famosa «Preghiera del ribelle», organizzatore delle «Fiamme verdi» in Val Camonica, medaglia d’oro al Valore Militare), Odoardo Focherini (di Carpi), Gianni Riccardi (di Milano). Bocchi all’interno del campo fu dapprima assegnato al «Block 23», poi venne trasferito, con Olivelli e altri, a Hersbrück, un sottocampo dove lavorò duramente in una miniera, in condizioni fisiche e psicologiche devastanti. Il 14 dicembre, quando ormai era debole e senza forze, venne riportato a Flossenburg, dove morì il 15 dicembre 1944. Pochi giorni dopo, il 12 gennaio dell’anno successivo, sarebbe deceduto anche Olivelli.

La notizia della sorte di Renzo arrivò solo tardivamente alla famiglia, tanto che ancora nel 1946 l’Ufficio regionale per la Lombardia del Ministero dell’Assistenza postbellica scriveva alla signora Ada Mainardi: «Siamo vivamente spiacenti di non poterLe dare alcun schiarimento circa la sorte del suo caro, dato che tale notizia risulta unicamente da un elenco proveniente dal campo di deportazione e nessuno, purtroppo, può dare quei dettagli che maggiormente valgono a tranquillizzare l’angoscia e l’incertezza che tanto Le danno pena». Il 27 maggio 1946 fu deciso per lui il riconoscimento della qualifica di Partigiano caduto per la lotta di Liberazione, da parte della Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiana e patrioti. Gli fu anche conferita la medaglia d’argento al valore militare alla memoria. Renzo Bocchi fu dunque un cattolico, un poeta, un antifascista che percorse appieno tutta la strada, accidentata, della vita sotto il regime fascista. Lo fece prima da consenziente, poi da dissidente, poi da oppositore e infine da vittima. La sua è stata una ricerca umana difficile e non priva di ambiguità, ma quella che a prima vista può apparire come incoerenza è in realtà il risultato di un processo che accompagna ogni decisione, a maggior ragione quella di schierarsi dalla parte della Resistenza e dell’antifascismo.

Fonti:

- Teresa Malice, “Don Giuseppe Cavalli racconta il “poeta antifascista”. Renzo Ildebrando Bocchi, deportato nel campo di Flossenburg”, in “Letture di un ritorno. Viaggio a Flossenburg”, Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, Parma 2015, pp. 135-142

- Carmelina Pullara, “Renzo Ildebrando Bocchi. Un uomo, un poeta”, in “Letture di un ritorno. Viaggio a Flossenburg”, Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, Parma 2015, pp. 143-150

- Archivio IsrecPr, Fondo Don Giuseppe Cavalli

- Il libro dei deportati, a cura di B. Mantelli e N. Tranfaglia, Milano, Mursia, vol. I, t. I, p. 329.

- Banca dati “Caduti della Resistenza parmense”, disponibile nel portale “Parma ‘900” realizzato da ISREC Parma.