È difficile delineare, in maniera sintetica, il quadro storico di Pietro Cavazzini. La sua esperienza è infatti una è una delle più significative di quelle degli internati militari di Parma. Di quei militari italiani, cioè, che all’8 settembre furono catturati dai tedeschi e deportati nei Lager del Terzo Reich.
Nato nel 1912 a San Lazzaro Parmense, dopo aver frequentato il liceo Romagnosi, si laureò brillantemente in medicina, diventando medico chirurgo. Una competenza che, in seguito, il Regio Esercito avrebbe sfruttato, inquadrandolo come tenente medico nella divisione “Parma”, che nel settembre 1943 operava nei Balcani (in particolare in Albania).
Il 10 settembre 1943 Cavazzini, venne catturato proprio a Valona e, rifiutandosi di collaborare con i tedeschi prima e di aderire alla Repubblica Sociale poi, venne deportato e internato nel campo di Görlitz, sino al 1945.
Qui la storia di Cavazzini si intrecciò con quelle di tutti quegli IMI che come lui dovettero sopportare venti mesi di prigionia, in condizioni durissime. La sua qualità di medico, però, pose Cavazzini in una posizione particolare: era uno dei responsabili dell’infermeria del campo. E proprio in questa infermeria Cavazzini si prese cura dei suoi compagni, o tentò di farlo a seconda di quanto potessero permetterlo le condizioni di vita in cui gli internati erano immersi. Sotto i suoi occhi passarono ogni giorno decine di internati malati, fisicamente distrutti, e Cavazzini e i suoi compagni infermieri tentarono di curarli o in qualche modo di alleviarne le sofferenze. E proprio in questa infermeria Cavazzini diede vita ad un documento di fondamentale importanza e che custodì tutta la vita (ora conservato all’archivio dell’Isrec Parma). Si tratta di un quaderno, costruito con materiali di fortuna, che contiene il nome dei 517 IMI venuti a mancare nel campo di Görlitz. Un documento unico nel suo genere, perché oltre a conservare il nome dei militari caduti, vengono elencati anche i motivi della morte e il luogo di sepoltura. Una preziosissima fonte di dati non solo per Parma, ma per tutti coloro che transitarono nel campo trovandovi la morte e che ci permette di studiare l’esperienza degli IMI con rara accuratezza. Ma non è un documento importante “solo” per quello. Accanto ad ogni nome Cavazzini e i suoi collaboratori annotarono l’indirizzo della famiglia di appartenenza. Era un modo consapevole di proiettare quei caduti nel futuro che sarebbe seguito alla guerra. Per consentire ai propri compagni, in qualche modo, di poter tornare a casa e dare la possibilità alle loro famiglie di custodire il ricordo dei propri cari.
Nel marzo 1945 il campo venne evacuato per la vicinanza al fronte e Cavazzini partì insieme al treno degli ammalati verso sud. Il convoglio attraversò la Baviera, la Svizzera e giunge a Varese a fine marzo 1945. Avendo rifiutato l’adesione alla RSI venne internato nell’ospedale militare e sottoposto a vigilanza speciale. Probabilmente era previsto il suo trasferimento al carcere di San Vittore, ma il 26 aprile 1945 venne liberato dai partigiani.
Una vicenda, quella di Cavazzini che, come detto in precedenza, raccoglie moltissimo di quella di tutti gli IMI. L’esperienza della guerra, dell’internamento, della vita durissima che dovettero sopportare, fino alla condizione paradossale di essere prigioniero della stessa Repubblica Sociale. Ma è simbolo anche del posto che gli IMI non avrebbero trovato nella memoria pubblica per interi decenni.
Una volta tornati a casa gli internati come Cavazzini erano circondati da una indifferenza pressocché totale. Erano scomodi perché erano parte di quell’esercito monarchico che aveva perduto la guerra, erano stati “collaboratori” dei tedeschi (si tenga presente che la stampa li aveva descritti come volontari del sostegno bellico alla Germania nel lavoro che in realtà erano stati obbligati a condurre nelle fabbriche e nei campi tedeschi), ed erano dei soldati che non potevano rientrare nella narrazione mitica che faceva della Resistenza armata il fondamento della nuova Repubblica democratica.
In conclusione riportiamon le parole che lo stesso Cavazzini pronunciò al 1° raduno nazionale dei reduci dalla prigionia dal campo di Görlitz (tenutosi a Monticelli Terme il 26 aprile 1975):
Noi non sappiamo se il nostro modo di vedere possa essere condiviso, ma abbiamo l’impressione che i prigionieri Italiani caduti in Germania siano stati troppo spesso ignorati.
Eppure noi crediamo che non si dovrebbe parlare di resistenza senza tenere presenti i sacrifici dei prigionieri Italiani in Germania che colla NON collaborazione hanno rappresentato la Resistenza più lunga, più dura e più pura che si sia verificata nell’ultima guerra – senza doppi giochi – spesso molto comodi – e senza trasformismi. [… Rivolgendosi ai compagni caduti, aggiunse: Voi] siete morti consapevolmente, coscientemente, giorno per giorno, per non venir meno al Vostro giuramento, al Vostro dovere, al Vostro Ideale.
Se siamo qui oggi, è anche per testimoniare che finalmente da vent’anni a questa parte gli internati militari hanno trovato posto nella narrazione pubblica delle vicende della Seconda guerra mondiale. Porre la pietra d’inciampo davanti alla casa di Pietro Cavazzini è quindi un modo non solo per ricordare la sua esperienza specifica, ma anche quella di tutti coloro che per decenni custodirono nel silenzio delle loro case la memoria di un’esperienza durissima e che non riusciva a trovare posto nella narrazione pubblica della guerra, pur nella consapevolezza di aver dato il proprio apporto alla costruzione di un nuovo ordine democratico.